Il cambiamento? Cominciamo dalla volontà.

Il cambiamento? Cominciamo dalla volontà.

C’è chi alla parola “cambiamento” si rivolta come se fosse una condanna a morte. Cambiare casa, lavoro, pettinatura, la strada che si fa abitualmente, il lato del letto in cui si dorme o la marca di jeans, quella che fa un bel culo.

Imparare a dire: “ma chi se ne frega, che pensino quello che vogliono”. Farsi scivolare addosso le cattiverie della gente e i loro giudizi inutili senza farsi condizionare? Insopportabile.

In termini scientifici prendere una decisione per affrontare un cambiamento è definito “fatica decisionale” che porta inevitabilmente ad un “costo biologico”. Per sopperire a questa violenza, l’unica cosa che può rendere gestibile questo genere di affronto si chiama volontà.

Quando siamo ben riposati e nutriti, la nostra forza di volontà è ai massimi livelli. La nostra “batteria mentale” infatti tende a scaricarsi ad ogni decisione, anche la più piccola, facendoci consumare lentamente le nostre energie mentali.

Ecco perché a volte è così difficile prendere delle decisioni e al contrario, perché accrescere la propria forza di volontà se poi la si spreca per prendere decisioni futili? Insomma, prendere decisioni costa fatica, soprattutto quelle che portano ad un cambiamento. E una sana esperienza in barca, mi ha salvato quanto meno dal punto di vista chimico. Perchè la barca a vela, fa bene allo spirito.

Una curiosità. Sapete chi sono Steve Jobs, Mark Zuckerberg o Barack Obama? Immagino di sì. Avete mai fatto caso che nei loro interventi pubblici (parlando al passato per Jobs) sono sempre vestiti allo stesso modo e sapete perché? Proprio per un saving del “costo decisionale”, un pensiero in meno a cui dedicare energia, così da averne di più da dedicare a come cambiare il mondo di miliardi di persone.

Stranezze, che personaggi come questi si possono certo permettere e in un certo senso, sono in grado di generare pure tendenza. Giudicate pure questo “vezzo” come meglio credete.

Il mio ovviamente è solo un simpatico esempio per spiegare come anche solo capire come vestirsi ogni giorno possa essere motivo di “stress” aprendo l’armadio della camera e dichiarando: “oggi non so proprio cosa diavolo mettermi”. L’armadio magari al contrario sta rispondendo con 8 stagioni di alternative.

Beh questo chiamiamolo anche: non mi basta mai. Lo shopping però in certi casi è un ottimo antidoto alle forme di insoddisfazione ed un buon modo per fare caring nei propri confronti, compreso poi il “senso di colpa” che si prova dopo aver speso soldi. Più facce della stessa medaglia.

Lasciando comunque da parte il concetto di manie che danno una certa sensazione di sicurezza, cioè quelle a cui dobbiamo assolutamente obbedire per godere visceralmente nel vedere i vasetti delle spezie sempre ben allineati, gli asciugamani piegati, i vestiti nell’armadio divisi per tipologia di tessuto, cromia o camminare per strada evitando di calpestare i tombini, le grate dei marciapiedi o le strisce pedonali, affrontare un cambiamento, è davvero sempre pesante da accettare.

Cambiano le strade e le piazze, i locali: prima era una tabaccheria ora è una banca. Cambiano le abitudini, le storie d’amore, le relazioni tra amici, il lavoro e la scuola (bah, dura da credere ma ci contiamo).

Cambiano perfino le nostre cellule, i capelli, la pelle. Ok basta, questo genere di cambiamento meglio lasciarlo da parte per il momento. Si cambiano le tende della sala, il divano, la cucina, il telefono, la macchina, il computer, i giocattoli per i propri figli, gli occhiali, i gusti in fatto di vino, di film, di donne o uomini. Cambia tutto, attorno a noi. E noi?

Chi di voi da piccolo ha dovuto accettare un trasloco? Uno di quelli definitivi, lontano dal luogo in cui si è cresciuti. Lontano dalle abitudini, dagli amici, dai posti a cui si era affezionati e che ci faceva dire: “questa è casa mia”. E’ una prima forma di cambiamento a cui ci si deve abituare e con la quale ovviamente poi, ci si convive.

Crescendo l’effetto trasloco cambia, assumendo significati diversi ma le sensazioni restano, quanto meno dal punto di vista dello “spostamento”. Ad esempio un trasferimento di lavoro in una città lontana o addirittura in un paese nuovo. Sfide, che non sempre sono accolte come un upgrade, al contrario, come un modo per “tenersi il lavoro” in certi casi. Oppure un cambio di mansione o ancora, da un lavoro manuale versus l’uso di un PC per apprendere i concetti di smart working.

Ecco, questo genere di cambiamenti poi rientrano nella sfera emotiva del “perché tutto sto sbatti, non si stava meglio quando si stava peggio?”.

Per non parlare di chi non è ancora abituato ad usare un tablet o lo smartphone per prendere appunti durante una riunione, usare un’app per classificare e programmare le spese domestiche o lo smart TV, per scegliere i film e i documentari da guardare agli orari che più si addicono al proprio umore. Netflix? 

Beh, magari sulla questione TV ci si sente più evoluti, cioè si è più propensi ad organizzarsi, dato che è una di quelle cose per alcuni fondamentali quando si è in deficit energetico, quelle che richiamano in noi l’istinto più primordiale, il modo più pratico e semplice per spalmarsi letteralmente sul divano e spegnere definitivamente il cervello.

Ma riguardo la tecnologia, ci sono ancora molti che la vedono come una difficoltà alla quale difficilmente si vuole sottostare, benché sia la naturale evoluzione di un concetto di bisogno o di mezzo per semplificare la vita e certe attività. Se la vogliamo vedere così.

Ognuno a proprio modo e da diversi punti di vista quindi, si è costruito il proprio habitat naturale, quello in cui ci si rifugia quando le cose non funzionano come dovrebbero oppure, un proprio modus operandi per arginare le difficoltà da affrontate, trincerandosi nella fortezza delle proprie convinzioni.

“Si può fare a meno della tecnologia. Come si faceva prima?” oppure si pensa che non è necessario cambiare qualcosa quando in fondo le cose, possono funzionare anche così, come sempre, come sono abituato a conoscerle. Perché cambiarle se funzionano?

E si invecchia, non anagraficamente ma cerebralmente. Ci si siede, in alcuni casi ci si annoia pure ma è così comodo, facile. Ci si ferma dunque, si evitano gli stimoli, quelli che producono il piacere di scoprire, conoscere, imparare cose nuove, interpretare il diverso come qualcosa che ci faccia crescere, rinnovare.

In questo caso, se vogliamo dare un nome a questa attitudine, la chiamiamo resilienza, cioè la capacità della mente di reinventarsi e rigenerarsi, di sapersi adattare al cambiamento, trasformando le incertezze in opportunità e i rischi in innovazione.

La resilienza per l’uomo è una forma di autostima, di forza di carattere da dimostrare a se stessi per cogliere di rimbalzo una brutta caduta verso il basso, in quei fallimenti che potrebbero nei casi peggiori demoralizzare e demotivare. Per rialzarsi e riprendere il volo quindi. Per essere certi di vivere, ancora, sempre.

Il termine è usato principalmente in meccanica, nella metallurgia e soprattutto nell’agricoltura, in cui a seguito di eventi ambientali catastrofici, si valuta la capacità dell’ambiente di rigenerarsi, riprendere vita. Ma da un po’ di tempo anche per reinterpretare il proprio stile di vita.

Pensiamo a Edison, che ha fatto migliaia di tentativi prima di scoprire il materiale adatto a far accendere una lampadina. Una scoperta che ha cambiato il mondo. Ma prima, nei suoi innumerevoli esperimenti, avrebbe potuto demotivarsi, mollare. Eppure no.

“Non ho fallito”, diceva a chi gli chiedeva il motivo per cui si ostinasse così tanto. “Ho solo scoperto 2500 materiali che non funzionano”.

Il punto di vista in questi casi è ciò che ci permette di avere un’opinione, un metodo, qualsiasi esso sia. Un motivo per essere soddisfatti di se stessi, del proprio modo di essere e di provare ad esserlo, a prescindere dai risultati.

“Io ci ho provato!”. Questo dovrebbe essere il motto.

Rimorsi, mai rimpianti. Sarebbe come dire non vivo, perché ho paura di morire. Non amo, perché ho paura di soffrire. Paradossi di una vita fatta a volte di finti problemi, costretti ad accettarli come regole di vita, piuttosto che come eccessivi limiti che diamo ad una naturale e umana propensione al piacere, nostro diritto, non peccato mortale.

Chi va in barca a vela, la resilienza la conosce molto bene, perché è un attitudine necessaria, soprattutto per quegli uomini e donne che affrontano i propri limiti umani per partecipare e cercare di vincere regate attorno al mondo, soprattutto in solitaria.

Estremizzazioni di un concetto che nella quotidianità si chiama determinazione, fiducia in se stessi, amor proprio. Un modo per essere certi di vivere il cambiamento come qualcosa di rigenerante, necessario alla crescita della persona più che un adattamento a condizioni imposte.

Vedendo il mondo che cambia come uno stimolo per sapere che l’evoluzione è solo una bellissima opportunità per esserne parte attiva, da protagonisti, anche se poi non si fonda la Apple, Facebook o non si governa una nazione.

La cosa più insopportabile sarebbe vivere in generale il cambiamento da meri spettatori, accettandolo passivamente come una imposizione, anziché appunto, una grande opportunità che la vita ci offre per diventare grandi.

Un modo per capire che ci sono decine di stimoli che potrebbero scatenare una reazione a catena di soddisfazioni, emozioni e di felicità.

Quello che mi ostino a ripetere spesso, proponendo la barca a vela come un’esperienza di vita da vivere e da portarsi poi a terra, tra le righe di un rapporto da fare per il capo, lungo le vie di una città che collega il nostro bisogno alla sopravvivenza.

Tra i conti di un obiettivo da raggiungere, senza il rischio di dimenticarsi però quanto vero c’è nelle cose che cambiano e che evolvono con i nostri bisogni da soddisfare.

Il mare è la tua vita e se lo navighi… saidisale.

Buon vento!

 

Il cambiamento? Cominciamo dalla volontà.

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